Blog Party “Storie incredibili delle olimpiadi”

Buon pomeriggio amici del Labirinto!

Ad un giorno dalla Cerimonia d’apertura più discussa degli ultimi tempi (causa Covid) non potevo non parlare di Olimpiadi, l’evento sportivo che da sempre è in grado di catalizzare l’attenzione di miliardi di spettatori e telespettatori divenendo vetrina di primo rilievo non solo per gli atleti partecipanti, ma anche per la nazione e la città ospitante, e come meglio parlarne se non attraverso un libro?! 

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Il testo di cui vi parlo oggi, Storie incredibili delle Olimpiadi, di Luciano Wernicke ed edito DeAgostini, narra aneddoti e storie curiose i cui protagonisti sono gli atleti olimpici, dal 1896 al 2016 senza trascurare una parte iniziale con le curiosità dei giochi del passato. 

Da quanto emerge dalle parole del giornalista argentino, risulta chiara la forte rilevanza sociale dell’evento sportivo per eccellenza e quanto proprio la società abbia influito nelle scelte e negli atteggiamenti dei comitati olimpici e degli atleti stessi.

In più edizioni il palcoscenico olimpico è servito non solo per celebrare campioni e vittorie, ma anche per mostrare agli occhi del mondo le problematiche sociali e politiche che tutt’oggi affliggono la società e di riverbero il mondo dello sport.

Relativamente a ciò mi ha molto colpito quanto accadde a Città del Mexico nel 1968.

Quest’edizione dei Giochi furono le Olimpiadi più “alte” (2550m di altitudine), con più record, con più rivoluzioni e più politica.

Tutti questi record furono possibili grazie al contesto storico in cui si inserirono: il Maggio francese , l’omicidio di Martin Luther King  e di Kennedy , la Primavera di Praga e la Guerra del Vietnam  fecero da sfondo a ciò che accadde dentro e fuori lo stadio Azteca.

A pochi giorni dall’inizio dei Giochi, un corteo studentesco fu attaccato dall’esercito in Piazza delle tre culture; molti furono i morti e tra i numerosi civili feriti vi fu la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci che successivamente dichiarò di non aver visto nulla di simile neppure in Vietnam .

Nonostante il concitato dibattito sulla Stampa internazionale, il CIO decise di far svolgere ugualmente i Giochi dichiarando che gli studenti protestavano contro il proprio governo e non contro le Olimpiadi.

Ma va ricordato quanto accaduto dopo la finale dei 200m maschili; gli statunitensi Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente il primo e il terzo classificato, aderenti al movimento dei Black Panthers, salirono sul podio senza scarpe, con le calze nere e con il pugno alzato coperto da un guanto nero in segno di protesta contro le discriminazioni razziali che si erano intensificate negli Stati Uniti in seguito alla morte di M. L. King. 

«Ogni dettaglio di quella protesta era stato curato, rispondeva ad un cifrario semiologico: i piedi scalzi, i pantaloni della tuta rialzati quasi al ginocchio, il foulard al collo, il capo reclinato, i pugni serrati, i guanti, le scarpette. La comunicatività emozionale di quell’atto recitato silenziosamente fu percepita, decodificata ovunque, trasmettendo un messaggio chiaro di solidarietà con i disagi e le frustrazioni del popolo afroamericano. Nel contempo espresse con prepotenza la rivoluzione politico-culturale innescata nel ‘68» (Giuntini, 2009, 188).

Dietro la protesta dei due atleti, ai quali si unì il secondo classificato, l’australiano Peter Norman , anch’egli impegnato nella difesa dei diritti degli aborigeni, si celò l’Olympic Project for Human Rights , progetto promosso dal sociologo Harry Edwards , ex atleta che sapeva bene cosa significasse essere un americano quando c’era da vincere delle medaglie per poi tornare ad essere un cittadino senza diritti.

Edwards in breve tempo raccolse intorno a sé più di 200 atleti afroamericani, e Smith presto divenne l’emblema del progetto cogliendo l’occasione della premiazione olimpica per affermare la propria identità sportiva e politica unendo, anche se in modo indiretto, tutti gli afroamericani che vivevano in condizioni di discriminazione razziale in un’America tornata ad evidenziare le differenze di razza.

Come affermò lo stesso Smith «Bisognava attirare l’attenzione del mondo sulla situazione del popolo nero e invitare l’America a cambiare atteggiamento in materia di eguaglianza sociale» (Audisio, 2003,140).

Brundage, nel frattempo divenuto presidente del CIO, contravvenendo ancora una volta agli ideali olimpici, ordinò l’immediato allontanamento dei due atleti dal villaggio olimpico e l’interdizione dalle competizioni internazionali.

Non andò meglio a Norman che, salito sul podio insieme ai due afroamericani, appuntò sul petto lo stemma dell’Olympic Project for Human Rights.

La spilletta gli fu prestata dal canottiere Paul Hoffman, che simpatizzava con i movimenti per i diritti dei neri.

Una volta tornato in patria, l’australiano fu vittima di un vero e proprio ostracismo tanto da non essere neppure coinvolto nell’organizzazione dei Giochi di Sydney nel 2000.

Anche in questo caso la visibilità Olimpica servì da trampolino di lancio per la difesa dei diritti umani e per la messa a conoscenza di tutto il mondo di una situazione di forte esclusione.

Il libro, scritto sottoforma di brevi racconti, risulta assolutamente scorrevole e piacevole da leggere, soprattutto in questi giorni in cui tutti aspettiamo di gioire per lo sport pulito ed inclusivo ed esultare per i nostri azzurri!

Ringrazio DeAgostini per avermi permesso di leggere il volume e le mie colleghe del blogparty, di cui vi invito a leggere le recensioni e gli approfondimenti!

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